Foto |
|||
---|---|---|---|
Sinossi Le Baccanti
“Innumeri le forme del divino, innumeri i miracoli operati dagli dei. nulla si compie di ciò che è atteso, un dio trova la via dell’inatteso.” (Euripides, Bacchae)
Il prologo comincia con Dioniso che si annuncia dicendo: “Eccomi a Tebe…”, la sua città. Ma non è “riconosciuto”, anzi il suo arrivo disorienta, genera tra i cittadini un furor che attanaglia gli animi: ciascuno è vittima di una follia travolgente determinata dall’estasi divina. Estasi significa “uscire fuori di sé”, non essere più se stessi: e, infatti, le donne di Tebe sono possedute dal dio ed è il caos, esse vanno via dalle loro case, abbandonano il focolare e i figli in fasce e si recano sul Citerone accecate da questa follia. Smarriscono la loro identità personale e nessuno dei loro corpi resta simile a sé, trascinato daIla dionisiaca passione. È la violenza del dionisiaco che si oppone all’aspetto gioioso dello stesso culto e anzi convive con esso. La violenza esplode estrema contro lo stesso tiranno tebano, il miscredente Penteo, reo di aver rifiutato il culto del dio straniero: egli finirà addirittura per perdere l’unità del suo corpo, lacerato e ridotto in brandelli dalle menadi invasate. Lo sparagmòs, lo smembramento, un corpo straziato, per di più dalle mani della madre, e per nulla somigliante a se stesso: è questa la punizione più infamante che Dioniso infligge a colui che non ha voluto riconoscerlo, che ha rifiutato ciò che più il dio bramava affermare, la sua identità. E tuttavia anche Dioniso non si presenta identico a sé, nelle sembianze tradizionali, non si rende riconoscibile nell’immediato: è, sì, una divinità ma in veste di uomo, è uno straniero con l’incedere da donna, un dio travestito che si mostra mentre si cela, cui piacciono i trucchi e le metamorfosi, un dio che illude e mistifica, gioca con la realtà trasformandola in finzione. È, in definitiva, la personificazione dell’alter, del diverso, è ineffabile, indefinito, mobile: laddove si manifesta, ogni certezza perde solidità e si deteriora. Ancora, egli è soprattutto uno straniero sui generis, un barbaro che viene da lontano ma cittadino anch’egli, in quanto nativo di Tebe. Ritorna ancora la sua ambiguità, che è sua ma è anche nostra… Ecco allora l’attualità di questa enigmatica e complessa tragedia: in essa Euripide ha saputo fornire una crudele rappresentazione della fragilità dell’uomo, delle debolezze e delle passioni estreme e violente che affollano la sua mente, tanto più che l’uomo del tempo di Euripide è lo stesso di oggi. La sua era un’epoca caratterizzata dal predominio degli affari e dell’interesse personale, dominata dall’egoismo e dall’individualismo che non risparmiava nessuna classe sociale, paralizzata dalla decadenza morale dello Stato e dalla disgregazione della società congiunta a quella dell’individuo. Era così allora, è esattamente così ora. Caterina Astorino
|
Foto |
---|